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sabato 2 gennaio 2016

Spirito, utopia e commercio

Copertina di Pierpaolo Miccolis
Non sono bastate le ramanzine nietzschiane allo spirito per rimanere “fedele alla terra”: lo spirito è per sua natura fedifrago. Eppure il suo tradimento porta frutti inaspettati. Lo spirito, a differenza del corpo, non si accontenta del dato, dell’esistente, di ciò che gli sta di fronte ma brama di trasformalo e superarlo creando, lui stesso, un altro ente. La tendenza a superare l’esistente in vista di un’alterità da lui prodotta è il segno della sua natura, la libertà, e di una sua precipua facoltà, l’immaginazione. Se lo spirito non fosse libero, non avrebbe radicata in se questa tendenza e non impegnerebbe le sue forze nella produzione di nuovi mondi; la libertà è la possibilità di negare la situazione in cui si è immersi per sceglierne - o addirittura crearne - un’altra. Non a torto Schlegel chiama l’immaginazione il «respiro dell’anima», proprio per indicare questa capacità di dilatazione dello spirito che gli permette di fagocitare il mondo esistente fuori di lui, per farne uscire uno nuovo creato da lui. Questi mondi però non hanno una collocazione spaziotemporale, sono le utopie
Utopia letteralmente significa “non luogo”: lo spirito è il padre di tutte le utopie che si sono succedute nel corso della storia, da quelle più burlesche alle più disastrose. Platone, Tommaso Moro, Bacone, Campanella hanno elaborato varie utopie politiche e descritto lo stato perfetto ideale. Il comune denominatore di tutti questi autori è stata la convinzione che toccasse al filosofo governare in quanto unico cittadino capace di contemplare la verità e tradurla in forme istituzionali. Uno dei testi utopici che amo di più però è “Per la pace perpetua” di Immanuel Kant; da una parte perché mi ricorda l’unica esperienza di insegnamento della filosofia che ho fino ad ora avuto, dall’altra perché l’ho letto per la prima volta proprio in concomitanza dell’inizio della crisi finanziaria del 2008 che ha travolto prima gli USA e poi il resto del mondo e di cui ancora sentiamo le nefaste conseguenze. In queste pagine Kant propone, con un’ingenuità commovente, degli articoli (6 preliminari e 3 definitivi) capaci a suo avviso di garantire la pace perpetua, a cui fa seguire due lunghi supplementi. Quello che allora e tutt’ora mi colpisce di questo testo è che alla base della proposta kantiana vi è la fiducia nella natura. A dire di Kant ciò che offre la garanzia della pace è la natura, non lo Spirito o la ragione; essa inizialmente ha «provveduto in favore degli uomini, a che essi possano vivere in tutte le parti della terra; con la guerra ha spinto gli uomini ovunque a popolare anche le regioni più deserte; con lo stesso mezzo li ha costretti a unirsi in rapporti «più o meno giuridici». Quindi per Kant non è solo la ragione che prescrive all’uomo l’ubbidienza alla legge morale che poi si esplicita in istituzioni democratiche ad afflato cosmopolita, ma è anche la natura stessa che costringe alla pace attraverso rapporti “più o meno giuridici”. Questi rapporti sono quelli economici: «è lo spirito commerciale - dice Kant - che non può andare d’accordo con la guerra, e che prima o poi si impadronisce di ogni popolo». Kant scriveva nel 1795 queste cose ma mi sembra che oggi assumano una tinta ancora più nitida: l’Unione Europea in cui viviamo di fatto è tenuta insieme proprio da questo spirito e rifugge la guerra anche per paura di non poter continuare a alimentarlo. Il che è la nostra salvezza ma anche la nostra maledizione. 

[Teodoro Custodero, Pensieri superflui sullo spirito ai tempi di Facebook, Pietre Vive editore, pp. 54-56]

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