Copertina di Raffaele Fiorella |
Nel suo nuovo libro, Rivelazione, Antonio Lillo sembra moltiplicare in numerosi e brevi racconti la sua storia, quella dei suoi cari, dei suoi amici: ben lontani però dalla biografia, siamo catturati da storie che fanno dei ricordi un terreno solido e sicuro per poter dar spazio alla fantasia e rendere le esperienze piccole favole che s’aggrappano con forza alla realtà ma insieme la chiarificano, le danno ordine, talvolta anche leggerezza.
Sembra prioritaria tra le pagine l’esigenza di sistemazione delle vicende, delle esperienze e, contemporaneamente, il tentativo di limitare ogni cosa, ogni evento, di dargli dei confini per meglio osservarne gli angoli, le smussature: si parte dall’elenco dei ricordi, dal primo all’ultimo, e poi per ciascuno si mette a fuoco un’immagine, un colore, un odore.
Tale procedimento, però, si allontana dal limitare la narrazione e il suo campo, né la brevità dei componimenti è davvero sinonimo di limitatezza del materiale narrativo: l’autore anzi sembra aver bisogno di ripulire i ricordi per poi varcare i confini prima tracciati con elementi fantastici, con gatti, topi, tartarughe parlanti. Solo tale forzatura può lasciare sullo sfondo lo scheletro della realtà nella sua forma più pulita, più nitida e permettere che piccole, grandi rivelazioni abbiano luogo senza distrazioni.
I luoghi ricorrono nella loro percorribilità: il giardino, la casa, una piazza, una stanza di ospedale. La famiglia e, su tutti, il nonno ammalato e bisognoso di cure quotidiane, sono i personaggi che si muovono nei racconti con le loro storie, le loro malattie, il lavoro, qualche sogno. Ma il segreto della rivelazione, della felicità, sembra essere nella non mobilità, nella sospensione del dormiveglia, nella pigrizia quotidiana. I momenti hanno bisogno di diventare cubetti di ghiaccio, regolari nella loro precarietà, pronti a sciogliersi in un bicchiere quando si ha voglia di ricordarli o di riassaporarli.
Questo lavoro di rifinitura, di riduzione lascia le storie in una apparente mancanza di profondità e di sentimento, l’autore si sforza di lasciarci sulla superficie delle cose non con l’intento di appiattirle o, peggio, perché privo di emozioni forti o di peso, ma perché solo anestetizzando il dolore si può tentare di raccontarlo: Persino gli occhi, dopo mesi di lavoro sullo schermo, sono asciutti. Lo spazzacamino, issato sul tetto di fronte, libera la canna fumaria in vista dell’inverno. Ora è intasata come l’arteria di un cuore: evita altri errori, nuovi ingorghi, nuove ischemie dei sentimenti leggiamo in Incendio.
Le storie di Lillo sono fatte di terra, di sangue, di stagioni che passano sui volti, sulle rughe degli anziani piegati dalla fatica: si consolava così, d’essere non un ramo storto sulla terra, ma parte di una grandezza tale, che c’era bisogno anche di lui perché fosse completa. Si legge così in Il portatore d’acqua: quanta grandezza, dunque, in queste vite di pochi versi, quanta fantasia per trovare i colori intorno alle cicatrici degli occhi, delle cose, in un referto medico irreversibile.
E se è vero, come scrive, che non c’è perfezione nell’affetto, allora questo libro regala a noi la più bella delle rivelazioni: la bellezza e l’autenticità dei valori ci appare nell’imperfezione, nella ferite, nelle cose randagie di una casa, nei sentimenti non ancora chiariti totalmente, nella scrittura ancora orfana di una stesura ma già pensiero nitido, rivelato.
(articolo uscito su Paese Vivrai, mensile di informazione della Valle d'Itria, ad agosto 2014)
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